Non è un paese per giovani!

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Testo di analisi sulle trasformazioni dell’università e del mondo della formazione pubblicato all’interno del pamphlet ROMA SI BARRICA #1.

I tagli e il definanziamento al mondo della formazione sembrano essere una priorità nella tabella di marcia del nostro Governo. Centocinquanta milioni di euro in meno al fondo statale per il diritto allo studio, duecentoquaranta milioni all’università e circa quaranta alla ricerca: questi i numeri, questa la ricetta dello Stato per sanare il debito pubblico, uscire dalla crisi e risollevare l’economia.

Chiunque abbia avuto la sfortuna di avere a che fare con l’università pubbliche italiane negli ultimi anni si sarà senz’altro accorto che sono oramai agli sgoccioli, abbandonate e in completo disfacimento, sia fisico e strutturale che culturale. Queste strutture sono state letteralmente distrutte dai tagli; sono fatiscenti e offrono ai loro studenti paganti la possibilità di acquisire conoscenze sempre più esigue. Il calo delle iscrizioni cresce di anno in anno e va di pari passo con l’aumento degli abbandoni in itinere dei percorsi formativi. Ciò accade poiché, mentre aumentano i costi del percorso di studi e quindi la difficoltà nel sostenerlo, il valore del titolo di studio è sempre più svilito. L’università non garantisce più la mobilità sociale come appare chiaro dai dati del Censis del Giugno 2014: oltre il 37% dei laureati svolge un lavoro dequalificato rispetto alla sua laurea.

Un’università, dunque, sempre più cara – l’aumento delle tasse universitarie è una tendenza nazionale – e alla quale è sempre più difficile accedere poiché in molte facoltà è stato introdotto il numero chiuso. Un’università che non si oppone all’aumento del costo dei libri di testo – spesso voluto dagli stessi docenti – e che non riesce a sostenere negli studi gli iscritti privi di mezzi. Infatti, i fondi per il diritto allo studio (borse e alloggi) vengono tagliati da anni e il governo Renzi ha compiuto un ulteriore passo in questa direzione vincolando i fondi statali dedicativi al patto di stabilità. In questo quadro non certo roseo per i giovani italiani che vogliano conseguire una laurea non manca poi una buona dose di lavoro gratuito; in diversi corsi di laurea infatti agli studenti vengono proposti o addirittura sono parte integrante del percorso di studi stage e tirocini gratuiti. A migliaia di ragazzi e ragazze, tenuti a bada dall’altissima disoccupazione giovanile, viene insegnato sin da quando si immatricolano ad accettare come necessari la precarietà e il lavoro non retribuito.

Il costo di un percorso di studi universitari è tanto cresciuto da impedirne l’accesso alle fasce sociali che se lo sono potuto permettere negli ultimi decenni. C’è chi quindi da questo processo viene escluso a priori ed è costretto a rinunciare alla formazione universitaria, mentre i figli di una parte della classe media ancora possono permettersi di investire sulla propria formazione, tuttavia il meccanismo si inceppa poi quando questi non trovano una collocazione nel mercato del lavoro.

Le profonde mutazioni che l’istituzione universitaria sta subendo non riguardano meramente i costi per accedere al servizio, ma sono lo specchio del pensiero dominante poiché l’università, come sempre è stato, si inserisce a pieno titolo nei macroprocessi politico-sociali. L’ ”aziendalizzazione” e la dequalificazione dell’università, infatti, sono figlie di una progettualità a lungo termine sul ruolo dell’educazione pubblica nella società, un processo intrapreso per l’università con la riforma Gelmini e che avrà inizio nella scuola con la riforma Renzi-Giannini.

Dalla Legge 133 del Ministro Gelmini, le parole chiave di questa ristrutturazione sono state merito ed eccellenza. Gli unici percorsi che vengono finanziati sono quelli che favoriscono questa eccellenza, fioriscono infatti le agevolazioni per i cosiddetti studenti meritevoli e nascono sperimentazioni interne alle università che offrono formazione gratuita per i più bravi senza alcun criterio reddituale. Le opportunità si restringono, diventano per pochi ma chi ne trae vantaggio? Quali sono gli interessi in gioco? Chi vince decurtando il numero e la qualità dei giovani formati? Il sogno di una società meritocratica e quindi giusta sembra offuscare la più banale delle constatazioni: il “merito” non è una qualità innata, ma è direttamente proporzionale alle possibilità economiche e culturali della propria famiglia di provenienza, all’entità dell’investimento sul capitale umano. Guardare al merito, più che al censo vuol dire indirizzare i fondi per il diritto allo studio a chi è meritevole per nascita.

10440200_752407228130082_8016140592057071240_nLa Gelmini, inoltre, aprì le porte degli atenei agli investimenti e alle speculazioni dei privati e delle multinazionali. Questo unito ai lauti finanziamenti alle università private che anche in Italia, quasi ultima in Europa in questo processo, si stanno ormai affermando come alternativa di miglior livello rispetto a quelle pubbliche. I figli della classe dirigente non a caso si formano all’estero o nelle università private. L’università pubblica, quella della crisi, invece, rimane un enorme bacino per la formazione della classe media impoverita, un luogo temporaneo in cui incanalare migliaia di persone che altrimenti non avrebbero lavoro, per formare in modo molto discreto una nuovo classe precaria, pronta a lavorare a qualunque condizione e destinata a una vita da sfruttata.

Sembra proprio che il nostro paese non abbia bisogno di laureati e di ricerca, che non abbia interesse a formare lavoratori specializzati, se non quelli strettamente necessari al rinnovo della classe dirigente. Questa scelta non risponde soltanto a mere esigenze di bilancio, ma è una precisa scelta politica. Condividere e diffondere le conoscenze, investire nella ricerca e nello sviluppo significa redistribuire le risorse e i capitali. Evidentemente non è questo che i nostri governanti e i poteri forti dell’Unione Europea hanno in mente.

I politici e gli esperti sostengono che i soldi per la spesa pubblica siano terminati, che l’Italia e con lei gli altri PIGS è stata troppo spendacciona e adesso ne deve pagare le conseguenze. Noi però ci chiediamo come vengono utilizzate le risorse pubbliche? Forse il centro della questione non è l’ammontare di spesa pubblica bensì il suo fine, i suoi destinatari. Gli investimenti negli armamenti, nelle grandi opere come il Tav o in progetti come l’Expo 2015 non mancano, eppure basta una pioggia forte per far annegare il nostro paese, eppure proprio non si riescono a trovare i fondi per formare i giovani italiani. Probabilmente per “tappare i buchi” più che tagliare a destra e manca in una furia che sta smantellando in modo disorganico quel che resta del welfare state, sarebbe necessario operare un’attenta analisi dei bisogni del paese e, di conseguenza, direzionare gli investimenti.

In questo contesto la formazione assume un ruolo fondamentale proprio perché dovrebbe garantire l’acquisizione di capitale umano, far sì che tutti ne possano accumulare così da sbloccare l’economia e da impedire che la profezia che i ricchi saranno sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri si avveri.

Per ciò riteniamo sia urgente rivendicare un’università gratuita, per quanto ciò possa sembrare utopico. Un’università libera e accessibile a tutti, che sia in grado di garantire effettivamente il diritto allo studio, perché i diritti o sono gratuiti e universali o non possono essere chiamati diritti. Sebbene la gratuità di un qualunque bene sembri quasi folle a chi è abituato sempre a pagare e spesso a non essere pagato per la propria forza lavoro, vi sono delle necessità che sono sociali, come formazione, sanità e casa, di cui nessuno deve essere privato. I diritti non possono essere “meritati”, devono essere per tutti. Infatti, soltanto redistribuendo la ricchezza e la conoscenza si può uscire dalla morsa di una società sempre più disuguale, si può riuscire a non essere sfruttati o costretti ad emigrare all’estero.

Tutti ci meritiamo un futuro dignitoso e l’unico modo per far sì che non siano le classi più povere a pagare il costo della crisi economica tramite l’erosione dei loro diritti e di qualsivoglia tutela è prendere coraggio e rivendicare collettivamente una vita dignitosa. Nonostante ci vogliano far credere che il capitalismo sia in modo del tutto naturale il miglior sistema economico, sappiamo che liberarsi da sfruttamento e precarietà è possibile. E’ possibile costruire una società diversa e migliore, ma soltanto a partire dalle lotte, mettendosi tutti in gioco e scommettendo sul nostro futuro.